di Lorenzo Palumbo*

Un kantiano direbbe: è il “desiderio” di essere giusti che ci deriva dalla semplice razionalità (pratica) del dovere, cioè il senso di giustizia.

È una risposta un po’ irrealistica, perché nella realtà le imprese che eludono i controlli, che evadono le tasse, che inquinano mantengono quote di mercato anche più importanti di quelle che invece rispettano le regole. Insomma, il fatto che noi riconosciamo la razionalità della “legge morale” non è sufficiente in tutte le situazioni a spingerci ad osservarla, soprattutto se quelli che non la osservano fanno più affari di noi.

Non è intento di chi scrive, in questa sede, di portare a conoscenza del lettore della gran mole di argomenti a favore delle imprese che adottano standard etico-sociali che la letteratura di etica degli affari ha prodotto in questi ultimi 30 anni, ma mi limito a fornire al lettore solo alcune evidenze.

Premialità

Le Regioni come l’Umbria e la Toscana hanno emanato leggi di spesa con incentivazioni per le imprese che adottano standard etici che prevedono, fra molto altro, meccanismi di premialità a favore delle imprese certificate nell’aggiudicazione degli appalti pubblici.

Dal 1991 negli USA, le sentencing guidelines prevedono sgravi di pena per le imprese che adottano codes of best practice.

Altri vantaggi per l’impresa

  • Riduzione del premio INAIL per i lavoratori se l’impresa ha adottato standard di comportamento improntati alla responsabilità sociale delle imprese;
  • Riduzione dei contenziosi legali e quindi dei costi per sostenerli;
  • Protezione dei lavoratori dall’immoralità del management;
  • Accumulazione di un capitale reputazionale.

Prevenzione

Il decreto legislativo 231/2001 prevede sanzioni per le imprese che non hanno predisposto meccanismi di prevenzione dei reati amministrativi dei manager e dei dipendenti e di risarcimento nei confronti di gruppi sociali che sono stati danneggiati dalle transazioni opportunistiche dell’impresa. Il codice etico, infine, esime l’impresa davanti al giudice per i reati commessi dai singoli in nome e per conto dell’impresa.

A che serve avere una buona reputazione?

La principale motivazione che spinge le imprese ad adottare un codice etico e di conseguenza a rispettarne le norme è la reputazione.

La reputazione è una relazione tra impresa e stakeholder fondata su un reciproco e continuo scambio di fiducia che produce benefici a entrambi. Le imprese che vogliono competere nel mercato non possono pensare di farlo senza avere costruito nel tempo una relazione durevole di fiducia con gli stakeholder esterni soprattutto, ma anche interni.

Tuttavia è bene ricordare che accumulare reputazione costa fatica e richiede molta pazienza e attenzione. In primo luogo, per costruirla è necessario rinunciare subito al “mordi e fuggi” che anche se vincente al momento, nel tempo è disastroso. In secondo luogo, la reputazione è un bene fragile, posto che la sua azione attiva una sorta di circolo virtuoso che si autoalimenta e che consente l’adesione spontanea alle norme sociali, ovvero le rende autovincolanti: infatti seguire le norme crea reputazione. La reputazione induce una risposta cooperativa da parte degli stakeholder e perciò offre benefici a chi segue le norme, ma se si viene meno al patto, la risposta negativa arriva con una velocità che può distruggere l’impresa.

It takes 20 years  to build a reputation and 5 minutes to ruin it (Warren Buffet).

A dimostrazione di ciò, tra i tanti, cito il caso Arthur Andersen – Worldcom negli Stati Uniti.

Il caso Arthur Andersen

La società di revisione più gloriosa, l’Arthur Andersen, fallisce perché viene cancellata dalla Borsa prima ancora che il magistrato possa muoverle causa o comunque rendere effettiva l’azione legale nei suoi confronti.

In quel caso c’è stata una sanzione reputazionale così drastica perché evidentemente l’investitore ritiene che per Arthur Andersen violare il codice morale della trasparenza e del dire la verità sui bilanci è una violazione troppo grave.

Per costruire reputazione, non servono i codici etici realizzati con il “copia e incolla” da internet e poi dimenticati nei cassetti. Questi possono addirittura essere più nocivi del non averne alcuno. Non serve, anzi è molto più nocivo di non avere nessun codice etico.

In generale, l’adozione del codice etico non può essere ridotta ad un’operazione di cosmesi per poter continuare a fare affari in totale disprezzo delle norme etiche e legali. A tale riguardo, secondo una malintesa concezione dell’etica, l’adozione di standard di responsabilità sociale da parte delle imprese altro non è che un velo per abbellire le proprie operazioni, sotto il quale gli affari continuano come prima[1].

Non c’è dubbio che talvolta la responsabilità sociale delle imprese è stata considerata come un ramo delle pubbliche relazioni, un modo di “addobbare la vetrina” (windows dressing); di dipingere di verde (greenwashing) l’impresa, ovviamente per far sembrare le sue attività ecocompatibili; oppure di “ammantarla di blu” (bluewashing); in questo ultimo caso il bersaglio è il Global Compact, l’iniziativa dell’ONU, che essendo priva di meccanismi di monitoraggio e di sanzione non fa altro che chiedere alle imprese di modificare il loro modo di agire.

Ovviamente esistono anche i casi in cui la questione etica è, per l’impresa, nient’altro che una questione di lifting o di mascheramento. Ma ciò non vuol dire che l’opzione etica in funzione di supplenza alla “vacatio” del diritto e di supporto all’osservanza delle leggi stesse non possa dare risultati per la maggioranza delle imprese. L’osservanza delle leggi è la prima regola che ogni operatore economico deve rispettare, ma da sola la legge non pare che abbia raggiunto risultati importanti, occorre allora sostenere con ragioni etiche le motivazioni di quanti sono chiamati all’osservanza delle leggi, per dare applicazione alle leggi stesse.

Nel nuovo testamento Gesù, attraverso il suo insegnamento, voleva produrre un ripensamento interiore (metànoia) nell’uomo, in contrasto con il legalismo esteriore dei farisei e degli scribi. Ciò non vuol dire che tutti coloro che rispettano sinceramente la legge siano persone fredde o superficiali o stupide, ma semplicemente che la legge esteriore senza una sua interiorizzazione porta alla non osservanza della legge stessa.

È emblematico il caso di colui che alla guida della sua auto rallenta non appena si accorge che c’è una pattuglia della stradale al fianco della strada, dopo di che, superato quel tratto di strada, sfuggito così alla vista dei poliziotti, riprende la sua corsa ad alta velocità. Se il fine è la sicurezza stradale l’utilità della legge è indiscutibile, ma non si può certo negare che questa utilità viene meno allorquando non è accompagnata da un’adesione alla causa. Se non c’è il consenso nel “fare la cosa giusta” non la si farà mai, qualunque essa sia[2].

Il codice etico è un modo di organizzare l’impresa per accumulare reputazione attraverso un patto costitutivo nel quale tutte le parti riconoscono i valori e i principi come propri, che per questa ragione, crea cooperazione e quindi massimizza i benefici per tutti gli stakeholder.

[1] Rossi G, Il conflitto epidemico, Adelphi, Milano, 2003.

[2] Devine G., Gli affari hanno un anima?, SanPaolo, Milano 1999, p.25.

Approfondisci l’argomento: SA 8000 e la Responsabilità Sociale dell’Azienda.

* Lorenzo Palumbo

Dottore di ricerca in Etica, docente di ruolo di Filosofia e Storia, professore a contratto diEtica degli Affari presso l’Università degli Studi di Palermo dal 2007 al 2011, Eticista. Segretario e referente per l’etica degli affari del C.S.E.A. Centro Studi per l’Etica Applicata. Consulente di soggetti economici ed enti pubblici per l’adozione di standard etico-sociali. Ha tenuto seminari per soggetti diversi sul tema dell’etica economica e partecipato a convegni in qualità di relatore. È inoltre autore di decine articoli di argomento vario e di saggi di etica applicata su vari giornali e riviste specializzate. L’ultima fatica editoriale è il libro: Il manager (er)etico, Aracne, Roma 2011.