* di Alessandro Barulli

-Era il 1997 quando mi ritrovai, per una delle tante famose sliding doors che capitano nella vita, proiettato in un lavoro che non avevo cercato e nemmeno immaginato potessi svolgere: quello di export manager.
Non sapevo assolutamente niente di questo tipo di attività. Conoscevo l’inglese e il francese, avevo buona volontà, desiderio di impegnarmi e giocare questa chance che il destino mi aveva regalato. Però non avevo la benché minima conoscenza di contratti, pagamenti, trasporti, dogane e quant’altro si può ricondurre a ciò che si chiama internazionalizzazione d’impresa.

Chi lavorava nel settore diceva che i tempi belli erano passati già da un po’, che i risultati migliori li avevano ottenuti coloro che erano arrivati prima e così via.

Oggi a distanza di molti anni, centinaia di voli in aereo fatti per raggiungere decine di Paesi nei quali ho fatto business e migliaia di ore spese a fare formazione potrei dire altrettanto.  Invece dico qualcosa che può sembrare rivoluzionario ma in realtà non lo è: il mondo dell’internazionalizzazione d’impresa è cambiato radicalmente e molto velocemente. In alcuni casi in modo quasi violento e drammatico.
Pochi esempi bastano a spiegare meglio questa mia affermazione. Non esisteva l’Europa senza frontiere e con una stessa moneta, motivo per il quale per fare un viaggio nel “Vecchio Continente” era necessario il passaporto e avere listini in marchi tedeschi, franchi francesi, fiorini olandesi e così via. Da questo punto di vista l’Europa unita e tutte le altre unioni doganali sparse per il mondo – NAFTA fra Stati Uniti, Canada e Messico, oppure MERCOSUR fra i Paesi del Sudamerica, GCC fra i Paesi del Golfo Persico, etc. – sono state un vero e proprio toccasana per il business export.
Non esistevano Paesi come la Cina o l’India in grado di impensierire con le loro produzioni a basso costo, la concorrenza a volte sleale e una capacità di penetrazione del mercato mai vista prima.
Non esistevano i supporti tecnologici ed i mezzi di comunicazione odierni: bisognava memorizzare i documenti nel fax per l’invio dopo le 22, ora a partire dalla quale scattava una tariffa telefonica agevolata – non eravamo ancora in regime di spending revue ma si faceva comunque attenzione ai costi – internet e l’e-mail facevano capolino mentre sistemi di comunicazione di massa per conference call, tipo Skype per intenderci, non erano ancora accessibili.
Sotto questo punto di vista sarebbe quasi da benedire il progresso informatico e tecnologico che oggi permette di lavorare all’internazionalizzazione d’impresa stando un po’ più comodi in ufficio.
Non erano disponibili i motori di ricerca grazie ai quali si possono ottenere informazioni aggiornate e spesso gratuite.
Nelle PMI non si dava grande importanza a brevetti, marchi, loghi, aspetti normativi delle certificazioni, comunicazione e tutto ciò che poteva dare un chiaro vantaggio competitivo.

Ecco questi sono solo alcuni esempi di quanto sia cambiato lo scenario in cui si muovono le imprese che intendono iniziare o continuare a perseguire la propria internazionalizzazione.

Se lo scenario all’esterno dell’azienda è cambiato in modo importante, all’interno alcune abitudini sono ancora dure a morire e purtroppo lexport continua ad essere visto come opportunità piuttosto che come scelta strategica, si vogliono fare molte cose investendo poco o niente e, soprattutto, non si pianifica.

Anche per me, quando lavoravo come export manager, non era importante pianificare più di tanto: i mercati non erano così concorrenziali e bastava darsi parecchio da fare a livello di viaggi e trasferte per portare a casa risultati interessanti.

Ben presto però ho scoperto, grazie a libri di marketing comprati negli Stati Uniti per ingannare le lunghe ore di volo delle trasferte intercontinentali, che il semplice darsi da fare di lì a poco non sarebbe stato sufficiente per continuare a crescere.

Occorreva iniziare a pianificare strategie, azioni e investimenti che invece rimasero in secondo piano rispetto alla spasmodica ricerca di vendite e di opportunità che diventavano via via più difficili da andare a scovare.

Oggi ricordo con gratitudine quel periodo, che mi ha fatto crescere come uomo prima ancora che come manager, ma anche con un po’ di amarezza perché in questi anni ho visto le aziende continuare a cercare opportunità piuttosto che pensare strategie. Purtroppo molte di esse, incapaci di adattarsi in modo rapido ai cambiamenti del contesto internazionale, hanno finito per schiantarsi contro gli scogli della competizione divenuta con il passare degli anni sempre più intensa.
Se questo è lo scenario attuale – un mondo in cui il business deve essere pensato a tavolino prima di intraprendere qualsiasi azione – cosa serve per affrontare l’internazionalizzazione moderna?
Servono capacità, attitudini e risorse in grado di gestire:
– cambiamento
– complessit
à
– competizione.

Il perché è presto detto, anche se prima di affrontare questo argomento tengo a sottolineare che il percorso di sviluppo internazionale di un’impresa non può, anzi non deve, avvenire se non si sa come fare (occorre quindi informarsi prima di iniziare), se non si controlla il processo (e quindi ci si mette nelle mani di chi – agente, importatore, consulente – viene scelto più per il nome o l’aspettativa che si porta dietro) e se si intraprende il percorso di internazionalizzazione quando ci si trova in condizioni economiche e finanziarie critiche.
Le attività estere di un’impresa sono costose e dietro il miraggio di opportunità si può nascondere il pericolo di investimenti senza ritorno che rischiano di consumare quella poca liquidità rimasta in cassa.
Torniamo invece a parlare delle sfide chiave dell’internazionalizzazione: cambiamento, complessità e competizione.

Il cambiamento è mentale, prima ancora che organizzativo. È necessario passare da un’azienda che fa soprattutto prodotti, magari in modo eccellente e secondo una tradizione decennale, ad un’azienda che per prima cosa “fa” il mercato, studiandolo, analizzandolo e cercando di capire se in quel mercato ci può entrare, può proporre i propri prodotti, può conquistare nuovi clienti, può vendere guadagnando.

La complessità da affrontare deriva proprio dalla gestione del cambiamento e dall’organizzazione o riorganizzazione delle attività export.
I pilastri dell’internazionalizzazione sono:
– export readiness
– export management
– doing business techniques.

L’azienda è pronta da un punto di vista produttivo a raccogliere ordini provenienti da nuovi mercati? Ha stabilità finanziaria per coprire gli investimenti che sono necessari per sviluppare il business export? Ci sono persone in grado di gestire trattative in lingua straniera, o che sanno sviluppare l’apertura di nuovi mercati? Esistono cataloghi, listini, schede di prodotto almeno in inglese? È presente un sito Internet ed un company profile, ovviamente anche questi almeno in Inglese oltre che in Italiano, per parlare dei valori aziendali?

Ecco, tutto questo rientra nella cosiddetta export readiness.

A proposito… Non avevo la minima idea di cosa fosse e a cosa servisse un company profile. Me lo insegnarono i miei clienti americani.

Il company profile il biglietto da visita dell’azienda. Che sia stampato, elettronico o presente su Internet parla dei valori dell’azienda. Ad esempio 50 anni o più di attività rappresentano il valore dell’esperienza. Il design, la creatività, l’innovazione sono valori legati ai prodotti.
L’origine territoriale, i contenuti Bío, le attività di ricerca e sviluppo, l’impegno a favore dell’ambiente, della comunità, dei dipendenti e tutto ciò che si lega all’unicità dell’azienda sono valori che devono essere presentati in un company profile, il primo documento che viene richiesto nelle fasi iniziali di interazione con operatori stranieri.

L’export management consiste nella capacità di un’azienda, nella persona dei dipendenti preposti all’internazionalizzazione, di gestire le problematiche relative a contrattualistica, pagamenti, dogane, trasporti, certificazioni, etichette e normative varie che possono influenzare pesantemente lo sviluppo del business oltre confine.
Le doing business techniques fanno invece riferimento a usi e consuetudini tipiche dei Paesi verso i quali ci si indirizza. Ad esempio: mai promettere ad un Tedesco qualcosa che non si può mantenere, come una data di consegna che si sa già in fase di trattativa di non poter mantenere. Costruire un rapporto relazionale armonioso con un Cinese. Fare una trattativa lunga ed estenuante con un Arabo. Essere pragmatici con un Americano. E così via. Le tecniche di doing business servono per entrare in sintonia con la controparte, parlando lo stesso linguaggio a livello di affari e gestendo la negoziazione alla stessa maniera.
Qualcuno potrebbe chiedermi se le doing business tecniques sono veramente così importanti in un processo di internazionalizzazione. La mia risposta è che sono fondamentali!

La competizione che è necessario combattere è quella dei mercati ormai globalizzati, nei quali sono presenti offerte ampie di prodotti. Io ho un mio personale paradigma per evitare che qualche azienda cada nella tristemente famosa “guerra dei poveri”, combattuta a colpi di prezzi bassi e margini ridotti all’osso: “fate poche cose, fatele molto bene, fatevi pagare molto!”.

….Continua al prossimo articolo.

Alessandro Barulli, consulente e formatore in tema di internazionalizzazione negli ambiti specifici del marketing e della pianificazione strategica, con  una esperienza ventennale in aziende di produzione prima di dedicarsi alla libera  professione. Svolge la sua attività in Italia e all’estero, collaborando con imprese private, associazioni di categoria ed enti pubblici attraverso la società Interplanning S.a.s., di cui è fondatore e amministratore. Si occupa di strategie di marketing, processi di internazionalizzazione e gestione delle reti di vendita. Le sue lingue di lavoro sono Italiano e Inglese.