33*di Alessandro Barulli

Se qualcuno dice che con il marketing si fanno le cose giuste, io rispondo: “no, si sbaglia di meno!”.

A proposito di errori, pensiamo ad esempio all’errore tipico di sbagliare il calcolo del prezzo di vendita perché magari è fatto con un sistema di moltiplicatori piuttosto che usando un sistema a margini di contribuzione.

Come si possono fare strategie di prezzo se non si conosce esattamente quanto si guadagna dalla vendita di un prodotto?

E se un cliente straniero dovesse chiedere un extra sconto per una promozione?

Come facciamo ad accordarlo se non sappiamo se guadagniamo, facciamo pari o rimettiamo soldi in caso decidessimo di accettare la sua richiesta?

Ancora peggiore è il caso del cliente straniero che ci chiede extra sconti perché il prezzo finale dei nostri prodotti nel suo Paese è troppo elevato.

Quanti passaggi ci sono fra produttore e consumatore?

Quanti margini applicano i vari intermediari nella catena di distribuzione?

È chiaro che se sappiamo di avere già margini ridotti al minimo sarà difficile acconsentire a richieste di ulteriori ribassi, motivando il perché del diniego.A quel punto o decidono gli intermediari della distribuzione di rinunciare a parte dei loro margini oppure è meglio scegliere un altro mercato. Anche perché personalmente preferisco consigliare di non vendere piuttosto che rimettere soldi!

Qualche grande azienda può permettersi di vendere sotto margine ma di sicuro ha la forza commerciale per recuperare l’investimento con la vendita di altri prodotti o per mezzo di altre strategie: tutte cose praticamente impossibili per micro e piccole imprese. Pensiamo anche a quale e quanta influenza possono avere sul prezzo finale di vendita elementi come i costi di trasporto, i dazi doganali e il livello di prezzo di prodotti similari già presenti nel nuovo mercato che ci accingiamo a penetrare. Tutte queste valutazioni vanno fatte a tavolino, in sede di esplorazione di un nuovo Paese e mercato, non dopo esserci già entrati.

Un altro aspetto da tenere sotto controllo per un processo di sviluppo all’estero del proprio business è quello riconducibile ai canali di distribuzione.Già districarsi fra importatori, grossisti – che spesso si chiamano anche distributori -dettaglianti, agenti e procacciatori non è cosa facile. Quindi è importante capire che ogni Paese ha una sua forma tipica di distribuzione, motivo per il quale si perde tempo, ad esempio, a cercare un agente se nel Paese obiettivo gli agenti non si utilizzano affatto.

Ad un cliente arabo è meglio non dire di avere un agente, perché ci si potrebbe sentir rispondere: “fanne a meno e le sue commissioni dammele come extra sconto”. Un cliente tedesco, al contrario, preferisce che il rapporto sia gestito tramite un agente, dal quale si sente garantito. Gli americani vorrebbero che il fornitore italiano avesse una filiale in loco, per ridurre il time to market. I giapponesi importano soprattutto attraverso trading companies, mentre sviluppare il mercato cinese richiede un costante presenza sul posto, magari attraverso un ufficio di rappresentanza.

Sempre parlando di distribuzione, è preferibile operare direttamente o indirettamente?

Nel primo caso si sostengono maggiori costi, però si controlla meglio e più da vicino il mercato. Nel secondo l’investimento è decisamente inferiore, le scelte strategiche vengono fatte dal cliente, ma non c’è praticamente nessun controllo su ciò che avviene dopo la partenza della merce.

Anche se in una fase iniziale si sceglie di operare indirettamente nei mercati esteri è bene prevedere che nel medio periodo bisognerà procedere in prima persona. Un’attenzione particolare deve essere riservata a ciò che avviene di frequente: la richiesta di esclusiva.

Consiglio sempre di non concederla, a meno che il cliente:

– dimostri di essere adeguatamente organizzato per servire in modo continuativo il territorio per il quale chiede l’esclusiva. È inutile concedere un’esclusiva per tutta la Cina se il nostro cliente opera solamente nella zona di Shanghai.

– si impegni a firmare un contratto con cifre di acquisto prestabilite. Se questi importi non vengono raggiunti, l’esclusiva decade.

Non ha senso vincolarsi solo sulla base di promesse: o ci si insegna seriamente o si rimane liberi di fare le proprie scelte da ambo le parti.

L’internazionalizzazione richiede studio ed approfondimento anche su questo aspetto, prima di avviare il vero e proprio processo di penetrazione del mercato.

Da ultimo, se parliamo della combinazione di prodotto, prezzo, distribuzione e promozione – il famoso marketing mix – non posso esimermi dallo spendere parole per tutto ciò che rientra nel termine generico di “promozione”.

Come promuovere adeguatamente un’azienda all’estero è tanto impegnativo quanto problematico. La promozione passa attraverso partecipazione a fiere, (che deve essere affidata ad uno specialista piuttosto che all’intuito dell’imprenditore), road show, matching con aziende straniere, comunicazione off line come cataloghi, brochure, company profile, pagine pubblicitarie e on-line con tutto ciò che è collegato a internet, inclusi i social network.

Anche in merito alla promozione bisogna essere chiari: non si può improvvisare!

Bisogna fra l’altro avere rispetto di usi e costumi presenti nel Paese straniero: posso avere un catalogo nel quale sono presenti bellissime modelle che potrebbero però essere censurate in alcuni Paesi arabi.

Insomma anche su questi aspetti ci sarebbe da scrivere pagine su pagine per spiegare in dettaglio cosa fare e cosa non fare per evitare brutte figure a livello di negoziazione interculturale (le tecniche di doing business delle quali ho parlato in precedenza). Anche se io sapessi padroneggiare tutti questi aspetti avrei poi comunque da affrontare un problema decisionale non da poco: all’estero ci vado scegliendo i Paesi obiettivo o mi faccio scegliere da chi mi cerca e trova?

La seconda strada è meno impegnativa a livello di investimenti, però non deve portare a diventare ostaggi dei clienti e della forza vendita.

Decidere invece di andare direttamente a sviluppare il business internazionale significa innanzitutto sapere come fare, operare scelte strategiche e decidere di investire maggiori risorse.
Per contro si avrà un maggiore e migliore controllo del mercato.

La scelta paese è un’attività complessa.

Non si tratta di tirare una freccetta contro la cartina geografica o farsi sedurre da casi di presunto successo di altri. Ogni informazione deve essere verificata attentamente. Così come è bene fare attenzione a seguire le scelte paese dei concorrenti.

Se non altro per due motivi:

– se hanno fatto bene ce ne accorgiamo quando ormai si sono garantiti le migliori posizioni e condizioni all’estero.

– se hanno sbagliato le loro scelte rischiamo di commettere errori sui loro errori.

La country analysis è un lavoro da esperti o da persone che la sanno fare e si ottiene combinando una serie di fattori, elementi e indicatori che si riferiscono sia al Paese preso in esame, sia al mercato del prodotto/servizio che si intende esportare.

La combinazione di questi dati permette di fare scelte più ragionate e meno dettate da improvvisazione ed emotività. Se qualcuno volesse provare ad iniziare a giocare al “piccolo marketer internazionale” suggerisco di visitare la sezione GlobalEdge del sito di Michigan State University – per avere un’idea di come si fanno le analisi paese – e la banca dati COEWeb di Istat, per vedere i volumi di esportazione dell’Italia verso il mondo.

In tutto questo discorso non posso non fare riferimento alla principale componente di successo di un processo di internazionalizzazione: le risorse umane!

Senza persone adeguatamente preparate il rischio di insuccesso è elevato.

Certo può sempre accadere che si ripeta una combinazione fortunata come quella che mi ha riguardato ad inizio carriera, ma fare troppo affidamento su circostanze fortunate non mi sembra una grande strategia. Anche perché, lo ripeto, strategia e pianificazione servono a ridurre il margine di errore. Una persona che vuole lavorare nel campo dell’internazionalizzazione deve avere determinati requisiti. Deve avere apertura mentale, empatia, capacità relazionale e negoziale. Ovviamente deve saper parlare bene le lingue straniere, a partire dall’inglese. Deve essere disposta a viaggiare frequentemente, capace di lavorare anche in condizioni di stress, essere paziente, tenace e votata al raggiungimento di obiettivi.

E per finire deve conoscere i principi del management aziendale, perché oggi non si vendono più solamente prodotti o servizi ma l’azienda nel suo complesso.

Qualcuno, per inciso, potrebbe pensare che internazionalizzare un’impresa non sia così semplice come si potrebbe immaginare…

Ed in effetti è così: è fondamentale sapere a cosa si va incontro prima di intraprendere questo viaggio.

Complicato?

Sì il viaggio internazionale di un’impresa non è facile.

La criticità risiede nel fatto che al giorno d’oggi parliamo di scelte che devono essere pianificate e non improvvisate. Senza tenere conto di tutta una serie di informazioni necessarie per le scelte ed i cambiamenti personali e organizzativi che devono intervenire anche nelle aziende più piccole.

L’internazionalizzazione non è infatti perseguibile solo da imprese grandi, ma è alla portata di chiunque la scelga da un punto di vista strategico, non come semplice opportunità.

Quindi, per concludere, anche io posso dire che 20 anni fa le cose erano più facili, semplicemente perché andava bene, potrei dire bastava, un approccio basato sull’impegno.

Oggi, per contro, l’impegno deve essere preceduto da tutta una serie di attività organizzative, strategiche e di pianificazione che richiedono agli imprenditori un deciso cambio di mentalità.

Il cambiamento e l’apertura mentale sono gli ingredienti di base del processo di sviluppo verso i mercati internazionali.

Poi fra 20 anni ne riparleremo!

*Alessandro Barulli, consulente e formatore in tema di internazionalizzazione negli ambiti specifici del marketing e della pianificazione strategica, con  una esperienza ventennale in aziende di produzione prima di dedicarsi alla libera  professione. Svolge la sua attività in Italia e all’estero, collaborando con imprese private, associazioni di categoria ed enti pubblici attraverso la società Interplanning S.a.s., di cui è fondatore e amministratore. Si occupa di strategie di marketing, processi di internazionalizzazione e gestione delle reti di vendita. Le sue lingue di lavoro sono Italiano e Inglese