manager01di Lorenzo Palumbo*

Una comunità può concedere ad un manager d’impresa deroghe alle regole, in nome del vantaggio di pochi?

Quello del manager d’impresa non è un lavoro fra i tanti, ma è una professione che implica delle responsabilità e degli obblighi verso gli altri. Alla stessa maniera di un medico verso i pazienti o di un insegnante nei confronti degli studenti.

Se conosciamo esattamente quali sono gli obblighi e le responsabilità del manager, sapremo anche definire che vuol dire essere un buon manager.

Aristotele direbbe che un buon medico ha il dovere di mantenere in piena salute il proprio paziente, fino a che questo è possibile in base alla scienza e alla pratica medica; allo stesso modo, un buon insegnante ha il dovere di istruire e di formare i propri studenti, fino al momento in cui può operare attraverso i metodi della didattica. La tesi aristotelica può essere adottata senza particolari difficoltà, perchè entrambe le professioni aderiscono a una qualsiasi teoria generale dell’etica, dall’etica cristiana alla filosofia pratica kantiana, nel senso che il loro agire è in coerenza con il codice della teoria etica generale.

Nel caso del management d’impresa, le risposte alla domanda: «Gli obblighi e le responsabilità che definiscono il buon manager debbono essere in accordo con le regole di condotta stabilite dalla moralità comune?» possono, invece, essere di segno diverso.

In effetti, bisogna riconoscere che, ad oggi, non vi è unanime consenso su quale etica applicare o su quali criteri debbano guidare le scelte dei manager. I manager, tuttavia, non possono eludere i seguenti quesiti: rispettare gli obblighi verso gli azionisti, piuttosto che le istanze degli stakeholder (dipendenti, fornitori, consumatori, collettività)? Cercare di soddisfare le pretese degli investitori nel breve termine, o premiare quelli che dimostrano fiducia nell’impresa nel medio e lungo periodo?

Come si vede, le decisioni da prendere non sono dello stesso segno, ma questo perché i doveri e gli obblighi che le guidano promanano da pretese e valori opposti. Di conseguenza, la domanda ‹‹Chi è il buon manager?›› non ha una risposta unanimemente condivisa.

Se il manager non è un lavoro come un altro, ma una professione, come tale, dovrebbe possedere le caratteristiche tipiche di tutte le professioni. A tale riguardo, in un bel saggio del 1957, Ernest Greenwood sostenne che gli attributi tipici delle professioni intellettuali sono cinque.[1]

Il primo è costituito da una capacità peculiare che caratterizza la professione e che è sostenuta da un sistema coerente di conoscenze teoriche. La teoria, proprio perché costituisce la base culturale che informa le operazioni oggetto della professione, è il riferimento unico per la preparazione dei professionisti che viene organizzata in specifiche scuole.[2]

L’autorità professionale è il secondo attributo. Il non professionista lavora per gli acquirenti (customers), il professionista per i clienti (clients). Mentre l’acquirente è capace di scegliere liberamente i beni e i servizi che desidera, il cliente si affida al professionista che stabilisce che cosa è bene per il cliente. Si presume così che il cliente non possieda il necessario bagaglio di conoscenze per stabilire le più idonee modalità per soddisfare i propri bisogni.[3]

Il terzo attributo è costituito dal riconoscimento della comunità. Ogni professione deve convincere la comunità circa la propria utilità sociale. Se la comunità riconosce la professione, concede di adottare specifiche procedure di reclutamento e garanzie per il riconoscimento dei titoli, ma è disposta anche a concedere protezione giuridica: per esempio, chiunque esercita una professione senza permesso è passibile di pena. Altresì, la comunità può concedere alla professione una serie di privilegi, la riservatezza (segreto professionale per medici e avvocati) o l’immunità dal giudizio della comunità per questioni tecniche (la prestazione di un professionista può essere valutata solo da un suo pari).[4]

Il quarto attributo è il codice di comportamento che ha il compito di evitare gli abusi derivanti dalla sua autorità nella sfera dei rapporti con i clienti, con i colleghi e con la collettività nel suo insieme. A tale riguardo, Greenwood sostiene che: “attraverso il proprio codice etico, l’impegno della professione nei confronti del benessere sociale diventa una questione pubblica, con ciò assicurandosi la continua fiducia della comunità”.[5]  Nel caso del management, la comunità accorda alla professione una certa discrezionalità che implica un’indipendenza del giudizio nella conduzione d’impresa, in ragione dell’alto grado di complessità della funzione che si traduce in uno status di particolare ed esteso potere decisionale. Tuttavia, il potere manageriale, in caso di opportunismo o abuso, può essere esercitato a scapito e contro gli interessi della proprietà, degli stakeholder e della collettività in generale e pertanto è necessario che sia vincolato ad un codice di comportamento.   

L’ultimo e quinto attributo, per Greenwood, è costituito dalla cultura professionale fondata su comuni valori, norme e simboli. I valori sociali di una professione, secondo Greenwood, sono le sue credenze basilari e fondamentali che ne giustificano la stessa esistenza. Il più importante, tra questi, è costituito dal beneficio alla comunità reso attraverso l’esercizio della professione.[6] Ciò significa che la società può accordare ai manager delle deroghe ai doveri che discendono dai valori comunemente condivisi, ma questo esonero non può consentire loro di passare sopra le richieste della moralità generale. Pertanto, nel caso in cui l’agire manageriale dovesse procurare danni e costi a carico della società che non è in grado di riparare, verrebbe meno anche il diritto a godere di una “sospensione etica” dai doveri comunemente accettati.

 E dunque, se quella del manager è una professione, secondo Greenwood, analogamente al medico e all’insegnante,  può ottenere dalla comunità delle deroghe, o degli esoneri in ordine al rispetto delle regole generali (es.:gli avvocati), ma solo al fine di aumentare il livello di benessere collettivo, riducendo la forbice tra il bisogno collettivo di servizi ad alto contenuto specialistico e la disponibilità di questi nel mercato.


[1] Ernest Greenwood, Attributes of a profession, in “Social Work”, 2, n. 3, luglio 1957, tradotto in italiano da Emilio D’Orazio e pubblicato nella rivista “etica degli affari e delle professioni ” n.2, 1993, pp.58-66.

[2] Ernest Greenwood, op.cit., p.59.

[3] ibid., p.60.

[4] ibid.,pp.61-62.

[5] ibid., p.62.

[6] ibid., pp.63-64.

*Lorenzo Palumbo è dottore di ricerca in Etica, docente di ruolo di Filosofia e Storia, professore a contratto di Etica degli Affari presso l’Università degli Studi di Palermo dal 2007 al 2011. Segretario e referente per l’etica degli affari del C.S.E.A. Centro Studi per l’Etica Applicata. Consulente di soggetti economici ed enti pubblici per l’adozione di standard etico-sociali. Ha tenuto seminari per soggetti diversi sul tema dell’etica economica e partecipato a convegni in qualità di relatore.

E’ inoltre autore di decine articoli di argomento vario e di saggi di etica applicata su vari giornali e riviste specializzate. L’ultima fatica editoriale è il libro: il manager (er)etico, Aracne, Roma 2011.